Guardo inebetito il cursore lampeggiare, interlocutorio, quasi in attesa di risposte. Difficile percorrere a ritroso gli ultimi anni. Si tratta di estraniarsi e di provare a guardare quello che è successo da un punto di vista siderale. Così, come un vortice impazzito, riemergono in ordine sparso ricordi, immagini e sensazioni che lego alla parola “pandemia”.
Stavo vivendo da pochi mesi la specializzazione in Malattie Infettive a Bari, il sogno della mia vita, e stavo in quella fase di ambientamento in cui si cambiano città, colleghi, abitudini. Era dicembre 2019 e già si cominciava a parlare di un focolaio epidemico in Cina. Mentre facevo il giro visita, osservavo incuriosito lo sguardo misto tra perplessità e paura dei colleghi più anziani. Di epidemie ne è sempre stato pieno ciclicamente il mondo e l’estremo oriente sembrava così lontano da darmi quella sensazione di chi guarda il mare in tempesta dall’interno sicuro della propria auto. Qualche settimana dopo, il primo caso sospetto in Italia, proprio a Bari. Una cantante lirica che tornava da una tournée in Cina. In quell’epoca bisognava ricostruire tutti gli spostamenti e i possibili contatti e si mandavano due tamponi da analizzare a Roma per confermare l’infezione.
Ho scelto Malattie Infettive per avere l’opportunità di assistere coloro che sono discriminati da tutti e che nessuno vuole curare. Ricordo la mia Prof.ssa, acciaccata e alla soglia della pensione, non esitare nemmeno un istante ed entrare in quelle stanze di isolamento per visitare con garbo e cura ogni paziente. Poi i ricordi si dileguano e volano a qualche mese dopo, la prima ondata pandemica. I pronto soccorso scoppiavano. I pazienti erano così tanti che ci trasferirono in una palazzina apposita, l’Asclepios. Erano perlopiù anziani provenienti da RSA e noi stavamo bardati ore ed ore in quelle tute da astronauta, con una stanchezza fisica e mentale che può capire solo chi l’ha vissuta, a gestire malati estremamente complessi che provavano a resistere ad una patologia sconosciuta. Non esistevano né vaccini né terapie. Molti morirono. E morirono in stanze di isolamento, lontani dall’affetto dei propri cari. Io e i miei colleghi ci bardavamo, incellofanavamo i nostri cellulari ed entravamo nelle stanze per fare delle videochiamate coi parenti, per far sentire quei nonnini meno soli, per restituire il sacrosanto diritto di un figlio di voler dare l’ultimo saluto ad una madre o ad un padre. Provavo a immaginarmi nei panni di quei pazienti ventilati, ad essere assistiti da dei tizi in delle enormi tute bianche, mascherati, con delle visiere da saldatori. Non deve essere stato facile chiedere aiuto in fin di vita a qualcuno di cui non puoi nemmeno lontanamente riconoscere dei tratti somatici. Rievocare queste immagini fa male, perché fu un’esperienza distopica e depersonalizzante tanto per noi quanto per loro. E ciascuno di noi, prima di andare a letto, ha rivisto almeno una volta, impressi nella mente, gli occhi e i volti di quelle persone.
Poi, come sparuti flash nel buio, ricordi sfusi delle ondate successive: un ragazzo di 30 anni, decatleta, finito nel giro di poche ore intubato, i primi colleghi contagiati e ricoverati, la strage degli oncoematologici, novax redenti dopo essere stati ad un passo dalla morte, il sorriso grato di chi ne è venuto fuori.
Se in ospedale era questa la situazione, come se la passavano allora i più fragili, gli invisibili, i senzatetto?
La crisi sanitaria si stava già ripercuotendo sul piano economico e sociale. Molte attività chiusero, molte persone si ritrovarono da un giorno all’altro senza lavoro o senza una casa. E come spesso accade nelle pandemie e ben rappresentato dal coefficiente di Gini, la forbice tra ricchi e poveri si ampliò, sicché i poveri diventarono ancora più poveri. Nei giorni liberi, quando tutto il mondo era bloccato per le restrizioni, andavo a visitare nei “ghetti” del foggiano. In quel mondo parallelo fatto di lamiere, baracche fatiscenti, condizioni igienico-sanitarie al limite dell’immaginabile, che cosa accadeva? Questi ragazzi continuavano a lavorare duramente nei campi a 2 euro l’ora, quasi avulsi dalla realtà circostante. Ma la pandemia colpì indirettamente anche le baraccopoli. E quando qualcuno stette così male, magari per problemi non relati al COVID, da necessitare di cure maggiori, l’accesso alla prima assistenza divenne ancora più difficoltoso. Il nostro splendido sistema sanitario nazionale, ecumenico, democratico, egalitario, era in affanno.
La risultante fu che i vulnerabili divennero persino più vulnerabili e che coloro i quali erano già “ghettizzati” divennero isolati anche da un punto di vista sanitario. Con una collega in pensione decidemmo di aprire degli Sportelli della Salute per indigenti, atti ad intercettare quelle persone che per un motivo o per un altro non riuscivano ad accedere alle cure primarie. Ho avuto modo di visitare nei centri diurni, nei dormitori, nelle unità di strada e le storie che ho ascoltato sono così struggenti da custodirle gelosamente nei cassetti più reconditi della mia memoria. Ho vissuto questa pandemia in reparto, nelle terapie intensive, nei pronto soccorso, in guardia medica, nei ghetti, eppure la percezione di quello che stava accadendo nel mondo l’ho avuta solo in un frangente. Era Natale della seconda ondata, venivo da turni estenuanti in reparto, con le dovute precauzioni e dopo essermi sottoposto all’ennesimo tampone, volevo trascorrere qualche giorno con i miei cari. Quando tornai a casa, i miei, sapendo che lavoravo nel reparto COVID, erano così impauriti da non volermi far entrare. Per un secondo mi sono ritrovato catapultato “dall’altra parte” e ho sperimentato su di me quella sensazione di isolamento che hanno avvertito i pazienti quando ancora non si sapeva niente di questa brutta storia. Oggi, dopo campagne vaccinali e con l’ausilio delle terapie, si ha la percezione che il COVID faccia meno paura, come fosse entrato a far parte della “normalità”, eppure, mentre scrivo queste righe, ci sono ancora in reparto dei pazienti estremamente gravi.
Se provo ad estraniarmi e a ripensare a questi anni, le parole che più mi risuonano e tornano alla memoria sono proprio “vulnerabili” e “fragili”, ovvero <<coloro che possono essere feriti>> e <<coloro che sono facili a rompersi>>, che, alla fine dei conti, possiamo essere tutti noi. Perché, forse, quello che mi ha insegnato davvero la pandemia è che la vulnerabilità e la fragilità fisica non possono prescindere da quella psicologica e sociale, che siamo umani e spesso sperimentiamo le stesse sensazioni davanti ad una malattia… E che in situazioni emergenziali è innanzitutto necessario non lasciare indietro i più deboli.