Che cosa è in fondo una sedia vuota che, con permanenza, trova la sua stanzialità in ambito urbano?
In occasione della Giornata Mondiale per l’Eradicazione della Povertà, in data 17 ottobre 2023, presso l’ex Palazzo delle Poste di Bari, si è tenuto il seminario interdisciplinare “Vedere la povertà. Prospettive tra materiale ed immateriale”, nel quale ci si è interrogati sul concetto poliedrico di povertà del nostro tempo e sul ruolo della cultura nella promozione sociale.
Il seminario ha inaugurato la prospettiva fotografica “Non sono io quella sedia”, che è stata svolta nell’ambito delle attività laboratoriali del Centro Polifunzionale per il Contrasto alla Povertà Estrema Area 51, con la partecipazione dei suoi operatori e operatrici, assieme ai beneficiari del Centro.
Che cosa è in fondo una sedia vuota che, con permanenza, trova la sua stanzialità in ambito urbano? Provate a stare fermi in quella visione, come se fosse il frame precedente di una fotografia, quello in cui l’immagine attraversa occhi, mente, cuore e stomaco, riverberandosi sulla pelle… un attimo prima dello scatto, istante senza tempo, quello che genera l’emozione, e sentirete emergere nella coscienza la “poetica folkloristica della disperazione”, davanti a voi.
Questo progetto è un invito a sedersi su quella sedia, a capovolgere la nostra prospettiva, e provare a sentire, perché credo che sia l’unico modo per riconnettersi all’umanità, senza cadere nell’automatismo difensivo dell’ignorare i senza dimora, anticamera di un’indifferenza cronica.
Perché prospettiva fotografica e non mostra? In fase di progettazione, ci siamo interrogati su come trasmettere alla cittadinanza la complessità di concetti e sensazioni che gli addetti ai servizi, tutti quegli operatori che abitano quotidianamente i luoghi dei senza dimora, hanno maturato negli anni. Nell’immaginario comune, la mostra è la presentazione critica di una serie di opere d’arte, motivo per il quale non ci è sembrato il termine giusto per un’esibizione che, invece, non ha alcuna velleità artistica. Il concetto di “prospettiva fotografica”, invece, ci è sembrato più adeguato: per riportare le parole di M.M.T., fotografo di guerra iraniano ed autore di una delle foto, “questa foto mi fa riflettere sulla necessità di guardare il futuro e gli obiettivi che ci sono nel corso del nostro percorso. Il ponte del dialogo è qualcosa che va all’infinito”.
Così, abbiamo cercato di superare e capovolgere la prospettiva comune, quella che nelle sedie sul ciglio della strada vede solo rifiuti e sporcizia, catturando il bisogno nascosto, per esempio avere un posto dove sostare. Infatti, il significato etimologico della parola sedia è proprio “sede, luogo di residenza, dimora”. Altrettanto, stare seduto, alzarsi da sedere, invitare qualcuno a sedere, dare da sedere, sono tutte locuzioni che rimandano ad un’idea di casa o dimora, quel posto sicuro di cui tutti gli esseri umani necessitano.
L’idea che sta alla radice di questo evento nasce dall’esperienza sul campo, dal vissuto quotidiano e dall’osservato giornaliero di chi, oltre a vedere le persone, le guarda, le conosce, le vive, le chiama per nome. Tutto parte da una domanda, che rivolgiamo sempre nel primo colloquio conoscitivo a chi si avvicina ad Area 51, ovvero: “hai un posto dove stare?”.
E la risposta è quasi sempre “no, non ho un posto dove stare”. E, come uno “spazzino-redentore”, per usare le parole di Andrea Mori, recuperano sedie dalla spazzatura e le utilizzano come presidio che indica la loro esistenza, e l’esistenza di tutti.
In questa società impermanente, in cui le distanze si accorciano e si allungano in continuazione, l’idea di una sedia che, nonostante tutto, ci accoglie e accoglie l’altro, fa sentire forse meno soli.
“Non sono io quella sedia” vuole quindi essere un viaggio tra immagini e parole nei luoghi dell’esclusione di Bari, per incontrare l’altro da noi, immaginare le sue storie, scoprire le possibilità di un riscatto sociale, provare ad indignarsi, mantenersi in cammino per contrastare ogni forma di degrado umano e di povertà. In verità, ad oggi la maggior parte di queste foto possono essere considerate “storia”, perché i luoghi di Corso Italia, sede prevalente delle immagini scattate, nelle ultime settimane sono cambiati. Ci sono adesso grandi cancellate e i muri, che fanno da sfondo alla maggior parte delle fotografie, sono di un “non colore”.
Le sedie sono una testimonianza, ma non vogliono identificare chi le ha prese, usate, abitate. Non servono per muovere a compassione o, peggio, a pietismo, ma servono a dire “io ci sono, esisto” (e, come dice Galimberti, per vivere abbiamo tutti bisogno di un testimone che ci veda, ci riconosca); inoltre, dovrebbero piuttosto servire ad indignarci, a non anestetizzarci.
Vedrete sedie senza gambe e sedie con accessori, ad esempio cuscini o tappeti sistemati con cura; tutto ciò ha provocato in noi che ci abbiamo lavorato per tre anni una costante sensazione di meraviglia, di meravigliosa resilienza, nonostante la crudezza dei racconti di chi, su quelle sedie, ci vive. Quella stessa meraviglia che si prova guardando un’opera d’arte moderna, nella quale ciascuno coglie il significato più vicino al proprio sentire, che, nel caso dell’operatore sociale, cerca sempre di essere aperto al dialogo e scevro da giudizi.
In questa società impermanente, in cui le distanze si accorciano e si allungano in continuazione, l’idea di una sedia che, nonostante tutto, ci accoglie e accoglie l’altro, fa sentire forse meno soli.