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Breve storia della Medicina di Comunità, l’anello di congiunzione tra sociale e sanitario

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Case della Comunità, Ospedali di Comunità, infermieri di comunità, psicologi di comunità, fisioterapisti di comunità, ostetriche di comunità, medici di comunità… la parola “comunità” , da sempre utilizzata prevalentemente in contesti sociali e aggregativi, negli ultimi 2 anni ha iniziato a prendere piede con forza anche nel settore scientifico sanitario.  

medicina di comunità

Il termine è entrato nel dibattito pubblico del mondo sanitario man mano che si diffondeva la voce di quali progetti sarebbero stati finanziati dal PNRR. Il cuore della Missione 6 di Next Generation EU infatti destina la maggior parte del suo fondo miliardario proprio alla realizzazione di queste nuove strutture che dovrebbero ridisegnare la sanità ed il welfare territoriale: le Case e gli Ospedali di Comunità, per l’appunto. Di riflesso il dibattito ha messo sotto i riflettori anche sulle branche professionali che in queste nuove realtà dovrebbero anche lavorarci.  

Ma facciamo un passo indietro: cosa si intende per “Medicina di Comunità”? 

L’origine del termine “Medicina di Comunità” è parecchio antica e risale agli anni ’60 e ’70, periodo durante il quale molti Paesi iniziavano a pensare di riformare i loro sistemi sanitari per includere un approccio più olistico e preventivo alla salute, focalizzandosi non solo sul trattamento delle malattie, ma anche sulla prevenzione e sul benessere della comunità nel suo insieme. 

La rivoluzione culturale del ’68 stava facendo sentire i suoi effetti anche nel mondo della medicina. L’attenzione verso le disuguaglianze sociali, la salvaguardia dell’ambiente, l’importanza della salute mentale, portano in questi anni ricercatori, intellettuali e scienziati  ad occuparsi dei fattori ambientali, sociali ed economici che influenzano la salute dei cittadini. Anche i sistemi sanitari occidentali iniziano a guardare a questa prospettiva.

Negli Stati Uniti vengono avviati i programmi Medicare e Medicaid, per estendere la copertura sanitaria ad anziani ed indigenti e, nel 1969, viene creata l’American Board of Family Medicine; negli anni successivi in Svezia, Inghilterra e Francia si assiste a riforme del sistema sanitario che avviano un processo di territorializzazione dei servizi sanitari, le risorse e le decisioni vengono spostate a livello locale, e vengono previsti per la prima volta meccanismi di partecipazione della comunità alla programmazione del budget sanitario; sul fronte della salute mentale nel Regno Unito e negli Stati Uniti le cure per i malati psichiatrici vengono gradualmente spostate dai grandi ospedali dove venivano internati a vita, a strutture del territorio adatte al reinserimento in società, prospettiva a cui guarda anche l’italiano Franco Basaglia grazie al cui impegno si arriva alla legge 180 del 1978.

Il 1978 è un anno chiave per la Medicina di Comunità. In Italia nasce il Sistema Sanitario Nazionale, gratuito e universale, ed il gruppo di medici condotti che aveva lavorato alla scrittura della legge delinea per la prima volta la figura del “medico di comunità” come professionista che deve non solo curare i suoi pazienti, ma occuparsi della salute a tutto tondo dei cittadini della zona.  
Sempre nel 1978 l’Organizzazione Mondiale della Sanità organizza in Kazakistan una conferenza mondiale sulle cure primarie. Per la prima volta i rappresentanti di tutte le nazioni del mondo si trovano riuniti a discutere di assistenza sanitaria universale.  

Ne esce un documento importantissimo, la Dichiarazione di Alma Ata, nella quale non solo viene riaffermato con forza che “la salute va intesa come uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia, è un diritto fondamentale dell’uomo e presuppone la partecipazione di numerosi settori socio-economici oltre che di quelli sanitari”, ma nella stessa dichiarazione vengono invitati i Paesi di tutto il mondo a ridisegnare i loro sistemi sanitari, privilegiando il welfare del territorio, l’assistenza primaria di base, la prevenzione e la medicina di comunità. 

Questa presa di posizione andava controcorrente in un mondo che concentrava gli investimenti verso i grandi ospedali e le cure sofisticate. Le conclusioni dell’OMS vennero immediatamente criticate dalla Banca Mondiale e dall’Unicef, e rimasero a lungo inascoltate.  

Gli anni ’80 erano gli anni del liberismo dominante. Le parole chiave erano efficienza, privatizzazione, nuove tecnologie, libero mercato. Da questo derivò che l’attenzione dei sistemi sanitari era tutta verso il curare le malattie nella maniera più efficiente e misurabile possibile man mano che si presentavano, non certo investendo in campagne di prevenzione dal risultato difficilmente quantificabile.  

Verso la fine degli anni ’90 però è proprio il mondo dell’economia ad accorgersi che questo modello non era proprio il più efficiente possibile. Banalmente perché curare le persone in tecnologici ospedali costa molto di più che educarli ad uno stile di vita sano o far loro cominciare una terapia prima che la malattia si manifesti nella sua massima forza.  

Nel 1998 Il premio Nobel per l’economia Amaryta Sen dichiarò che le cure primarie erano il mezzo più importante per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, mentre la pediatra Barbara Starfield dimostrò che investire nella sanità territoriale non solo garantisce una più equa distribuzione di salute tra i cittadini, ma comporta anche una spesa sanitaria inferiore. 

Ancora oggi, anno dopo anno, la sfida della sostenibilità economica del nostro sistema sanitario si fa sempre più urgente. Questo perché il sistema è stato progettato per un mondo molto diverso da quello di oggi, un mondo con una popolazione giovane, che veniva saltuariamente colpita da importanti malattie infettive, da affrontare con rapidità. 

medicina di comunità

Oggi però l’invecchiamento della popolazione ci mette davanti ad un mondo dove i pazienti possono convivere per decenni con malattie croniche. Tumori, diabete, ipertensione, obesità, sono vere e proprie epidemie, che però vanno affrontate ogni giorno. Si stima che, se non inizieremo a investire in prevenzione ed a curare sul territorio quello che oggi curiamo in ospedale, l’attuale spesa per curare le malattie croniche passerà in Europa dagli attuali 1000 miliardi l’anno, a circa 5000 miliardi l’anno. Una cifra insostenibile per i sistemi di welfare europeo.  
 
Ma dalle grandi sfide, bisogna imparare a cogliere le opportunità, ed è per questo che il PNRR e le società scientifiche stanno riportando in auge l’importanza della medicina di comunità, della sanità territoriale, dell’integrazione tra mondo sociale e mondo sanitario.  
In una società dove ad ogni fermata della metropolitana, dal centro alla periferia, l’aspettativa di vita si riduce di un anno. In una società dove cresce a dismisura il consumo di psicofarmaci, ma dove se introduci uno psicologo gratuito si dimezza il consumo di tutti gli altri farmaci. In una società che spende il 20% del Pil per curare malattie prevenibili come diabete e obesità, la risposta non può arrivare dai grandi e costosi ospedali, ma da equipe multiprofessionali, integrate nel quartiere, che facciano prevenzione, educhino i pazienti, e diventino per loro un riferimento sempre accessibile.  
 
Se nelle Case di Comunità del futuro avremo infermieri che ricordano agli anziani su whatsapp di seguire le terapie, se avremo nutrizionisti di quartiere a disposizione gratuita per tutti, se avremo medici di famiglia che potranno prescrivere un percorso psicoterapico ai loro pazienti, nel giro di qualche anno diventeremo un Paese più sano, felice e più ricco del Qatar. 

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