17 Febbraio 2025

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Lo stress da lavoro correlato nelle professioni d’aiuto

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Lo stress è una risposta psicofisica che l’organismo mette in atto quando l’equilibrio individuale viene interrotto da compiti che sono valutati come gravosi ed eccessivi. Questa doverosa premessa è necessaria al fine di introdurre l’argomento che tratteremo in questo articolo, in quanto tiene conto della dimensione soggettiva dell’essere umano, importante dato che le differenze individuali costituiscono un elemento essenziale nel processo di stress. 

stress da lavoro correlato

Pertanto, lo stress non è da intendersi come una patologia ma come una situazione prolungata di tensione: riconoscerlo è il primo passo per poterlo affrontare. 

In questo contesto parleremo di stress da lavoro, ovvero quell’insieme delle reazioni fisiche ed emotive che si manifestano quando le richieste lavorative non sono commisurate alla capacità della persona, alle sue risorse o alle sue esigenze. In particolare, parleremo dello stress da lavoro correlato con un particolare focus su quello stress generato in quei posti di lavoro ove si ha particolarmente a che fare con la sofferenza umana e sviluppata da individui che svolgono le cosiddette “professioni di aiuto”; con tale definizione s’intende un vasto campo di professionisti impegnati in ambito sociale – sanitario, i quali attivano una relazione di sostegno e di aiuto di natura professionale secondo una dinamica relazionale che sovrasta la logica dicotomica di chi è in difficoltà o di chi può sostenerlo. 

Si parla spesso di persone con fragilità, per fortuna in maniera sempre più crescente, ma meno frequentemente ci si occupa della vita dei professionisti che vi ruotano attorno e che lavorano con loro. Fra questi troviamo psicologi, infermieri, assistenti sociali, medici, ecc., tutte figure che hanno a che fare con la sofferenza e la delicatezza delle diverse patologie. 

Lo stress da lavoro correlato: la compassion fatigue nelle professioni d’aiuto

Di fatti, se spesso si è probabilmente sentire parlare di burnout, forse non tutti hanno sentito parlare di compassion fatigue, che tradotto starebbe proprio a significare “affaticamento da compassione”: si tratta di quella condizione tipica di infermieri, medici, psicologi ed operatori sanitari in genere, che si origina soprattutto dal continuo contatto con i pazienti e dalla frustrazione che può derivare dal non riuscire ad alleviare il loro dolore.  

Ma andiamo per gradi: quali sono le differenze tra burnout e compassion fatigue? Il burnout, parola che sta per esaurimento o affaticamento, è una condizione generata prevalentemente da conflitti all’interno dell’ambiente di lavoro e che può presentarsi in persone che svolgono un qualsiasi tipo di professione; tale sindrome, corrisponde ad un graduale e progressivo consumarsi del professionista che si sente sopraffatto dal proprio lavoro. La compassion fatigue, invece, è determinata principalmente dalle relazioni instaurate con i pazienti e i loro familiari ed è quindi una reazione specifica e diretta dovuta all’esposizione al materiale traumatico presentato dal paziente.  In altre parole, se pur i due termini vengono spesso usati in maniera interscambiabile, la compassion fatigue può essere considerata una forma di burnout specifico degli operatori sanitari. Entrambe le condizioni si manifestano con sentimenti di frustrazione, impotenza, calo del tono dell’umore ed esaurimento fisico ed emotivo. 

Di fatti, i professionisti sanitari che lavorano con pazienti traumatizzati in maniera aperta, impegnata ed empatica e che sentono la responsabilità di aiutare i loro assistiti, sono più vulnerabili a sviluppare un trauma vicario, ovvero un coinvolgimento empatico tra chi svolge una professione d’aiuto e coloro che sono effettivamente vittime di un trauma in prima persona. 

La sintomatologia dello stress da lavoro correlato

La sintomatologia che si manifesta colpisce più aree dell’individuo ed emerge sul piano emotivo, fisico, cognitivo, sociale e lavorativo. 

Vi sono molti aspetti emozionali che possono riflettere su questa condizione: rabbia, apatia, cinismo, scoraggiamento, irritabilità, diminuzione dell’entusiasmo, sensazione di essere sopraffatti e addirittura flashback o ricordi intrusivi di esperienze con e dei pazienti. Tutto questo è dovuto all’estremo carico emotivo connesso alla professione: di fatti, l’empatia necessaria a svolgere questo tipo di lavoro mette nelle condizioni di sostenere un peso emotivo a volte eccessivo che, di conseguenza, si riflette poi sulla psiche. 

A livello cognitivo e mentale si manifestano invece sintomi come noia, incapacità di concentrarsi e disordine. Si tratta di aspetti che riducono chiaramente la prestazione lavorativa e che, si pensi ad esempio all’ambito ospedaliero, possono divenire dannosi per l’incolumità dei pazienti. 

Corpo e mente sono inevitabilmente collegati, quindi spesso i sintomi psichici hanno dei riflessi somatici: può trattarsi di diminuzione delle energie, delle resistenze, della forza, con relativa sensazione di affaticamento. Tutte queste condizioni hanno un impatto sulla salute, in quanto vi è una generale riduzione delle difese immunitarie. Spesso, tali sintomi vengono ignorati. 

Anche le relazioni con i colleghi ed i pazienti possono essere danneggiate dalla compassion fatigue, in quanto l’individuo potrebbe divenire sempre più alienato, potrebbe tendere all’isolamento o divenire irritabile e scontroso, indifferente nei confronti del resto del personale o dei pazienti stessi.  Nel lavoro d’équipe questi sintomi possono rendere estremamente difficile il raggiungimento degli obiettivi comuni e, per quanto riguarda il singolo, andranno ad alimentare tutta quella sintomatologia emotiva e cognitiva precedentemente elencata. 

Infine, a livello prettamente lavorativo, inteso come quello che va a toccare gli aspetti più organizzativi del lavoro, può comparire: assenteismo, ritardo negli orari e nelle scadenze, evitamento delle situazioni più intense e problematiche con i pazienti e, in generale, una diminuzione della performance. 

Come evitare l’impatto negativo del lavoro sulla vita privata?

Come possiamo fare quindi per mantenere la nostra possibilità di mantenere emozioni positive, non solo per fornire una buona assistenza ai pazienti, ma anche per evitare che il lavoro abbia un impatto negativo su noi stessi? Diversi studi hanno rilevato che la mindfulness ha generato risultati positivi su questo fronte, consentendo una maggiore tolleranza allo stress e sostenendo la resilienza. La consapevolezza del nostro stato interno può, di fatti, sempre aiutarci a fare scelte che cambieranno il modo in cui gestiamo le informazioni stressanti in arrivo. 

Oltre questo, rimane importante trovare i propri modi per “ricaricare le batterie”, ad esempio mangiando sano o facendo attività fisica, in generale quindi intraprendendo attività che fanno stare bene, in modo tale da avere più risorse da poter spendere con famiglia, colleghi e pazienti. Di fatti, è molto importante bilanciare lavoro, svago e riposo, mantenere attiva la propria rete amicale e curare le proprie relazioni familiari, dedicarsi ai propri hobby e alle attività ricreative. Tutto questo, oltre a prevenire il trauma vicario, può aiutare a preservare un solido senso di identità personale. 

Infine, anche sul luogo di lavoro, risulta essenziale mantenere un buon collegamento con i colleghi e avere la disponibilità di una supervisione continua, che riduca la sensazione di isolamento e aumenti l’obiettività dell’operatore. 

Per approfondire, invece, il tema del conflitto tra lavoro e famiglia (work family conflict) vi rimandiamo al nostro ulteriore approfondimento in merito.

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